Il caso Mahmood. Uno sguardo al di là delle polemiche
di Maurizio AmbrosiniLe polemiche che hanno accolto la vittoria al festival di Sanremo di Mahmood, giovane italo-egiziano, hanno assunto tratti grotteschi ma sollevano a loro modo questioni profonde e rilevanti.
Da Pippo Baudo a Maometto, ha detto qualcuno. Ciò che stride per la sensibilità di una parte dei commentatori è il doversi confrontare con un ragazzo che si definisce italiano e si chiama Alessandro, ma ha scelto come nome d’arte Mahmood; che è nato e vissuto in Italia, ma ha un padre egiziano e musulmano; che definiscela sua musica 'marocco pop': un apparente ossimoro, che però ci parla della musica come fenomeno insieme globale e localmente rielaborato.
Il caso Mahmood è in realtà un manifesto dell’Italia nuova che si sta formando sotto i nostri occhi. Un’Italia in cui crescono tra i nostri figli i figli di coppie miste (quasi 19mila matrimoni misti nel 2016, 9,3% del totale), nonché i ragazzi e le ragazze di origine immigrata (quasi 1,3 milioni), ma socializzati, scolarizzati (826.000) e sempre più spesso anche nati nel nostro Paese (quasi 68.000 nel 2017).
Si tratta di un’evoluzione demografica che non sconvolge l’identità culturale italiana, ma la rende più composita, variegata e inevitabilmente complessa. In altri termini, dobbiamo misurarci con il fatto che avremo sempre più italiani di pelle scura, con gli occhi a mandorla, con il velo o con il turbante, con cognomi irti di consonanti e difficili da pronunciare, di nome Mahmoud, Mariam, Carlos, Svetlana e tanti altri.
Non è un cambiamento indolore. Molti si noi si sono formati un’idea della nazione italiana nei termini risorgimentali fissati da Alessandro Manzoni e le sono rimasti affezionati: «una d’arme, di lingua, d’altar, di memorie, di sangue, di cor» (Marzo 1821).
Nel Novecento, grazie alla diffusione dell’istruzione, alla radio, poi alla tv, la lingua nazionale si è imposta, e grazie allo sviluppo delle istituzioni del Welfare (la previdenza, la sanità pubblica) il riconoscimento dello Stato nazionale si è affermato.
Con esso un senso di appartenenza e di identificazione nazionale. È un patrimonio di legami e di codici culturali tutt’altro che obsoleto o trascurabile. Non si tratta di riporre in soffitta l’identità nazionale e ciò che rappresenta. La sfida è però quella di coniugarla al futuro, anziché al passato, di farne un motore d’inclusione e di allargamento, anziché di ripiegamento e di chiusura, di rinnovarla con l’immissione di nuove energie e nuovi stimoli.
Anche perché ogni altra soluzione è preclusa: non potremo mai mandare via questi giovani, che di fatto non hanno più un’altra patria a cui tornare. Non potremo né sbiancarli, né convertirli a forza, né obbligarli a rinunciare alle loro origini e alla loro storia familiare. Sappiamo della deludente e aspra fine della proposta di riforma della legge sulla cittadinanza.
Il tema non è neppure nell’agenda del nuovo governo, non rientra nel 'contratto' tra le forze politiche al potere e nei messaggi che lanciano agli elettori. Ma nulla potrà impedire a questa nuova Italia di crescere, di influire sulle basi demografiche della popolazione italiana del futuro, di trasformare nei fatti l’italianità in qualcosa di nuovo.
Il problema è quello di accompagnare consapevolmente questo processo, di valorizzarne i benefici, di contenerne i costi, anziché vagheggiare un impossibile ritorno al passato. Il caso Mahmood ci insegna molto e dovrebbe farci riflettere più a fondo.
Maurizio Ambrosini
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